Fra i paesi non costieri dell’intero Cilento, Rutino detiene il primato del ricordo più antico, consegnato ad un documento del 954 contenente il racconto della Traslazione di S. Matteo. Vale la pena soffermarsi su tale documento, nel quale la nostra città viene citata col nome latino Ruticinum (cioè: luogo pieno di ruta): La Traslazione di S. Matteo apostolo ed evangelista (manoscritto custodito nella biblioteca della Cattedrale di Benevento) è un racconto anonimo dei fatti riguardanti il ritrovamento ad opera del monaco Atanasio del corpo di S. Matteo nei pressi della foce del fiume Alento e del suo successivo trasporto (“traslazione”) a Capaccio (sede Vescovile) ed infine a Salerno. Il viaggio si compì attraverso Rutino per raggiungere Capaccio. La tradizione vuole che in tale circostanza S. Matteo abbia miracolosamente fatto scaturire una fonte per dissetare le persone del corteo che accompagnavano le reliquie.
Al tempo della Traslazione, Rutino rientrava nella gastaldia di Lucania. La gastaldia era, nei territori dominati dai Longobardi, una circoscrizione amministrativa, qualcosa di simile alla provincia odierna. Quando nel 1034 la gastaldia Lucania fu divisa in distretti, Rutino rientrò nel distretto o contea di Capaccio.
I Normanni conquistarono Salerno (sottraendola ai Longobardi) nel 1077. Ciò nonostante, Rutino restò parte della contea di Capaccio, tenuta dai discendenti del longobardo Pandolfo. Sul finire dell’XI secolo, sebbene gran parte delle terre poste alla sinistra del fiume Alento fossero passate ai Sanseverino (nobile famiglia normanna) in seguito al matrimonio di Sica, figlia di Pandolfo, con un Sanseverino, gli altri figli di Pandolfo vi conservavano ancora numerose proprietà, fra cui una Chiesa di S. Matteo. Per il resto Rutino rientrava nel feudo cilentano dei Sanseverino, seguendone, per secoli, le vicende tutt’altro che pacifiche. Ci limiteremo a ricordare, schematicamente, gli eventi più significativi.
Nel 1246 si verificò la Congiura di Capaccio, cospirazione dei nobili, capeggiata dai Sanseverino contro l’imperatore Federico II di Svevia (la cui politica mirava, fra l’altro, a limitare i poteri dell’aristocrazia meridionale). La congiura si concluse con la presa del castello di Capaccio da parte delle truppe imperiali e la morte di tutti i maggiori responsabili. I Sanseverino, s’intende, persero tutti i loro feudi. Quando li ricuperarono sotto gli Angioini (dinastia francese salita al trono a Napoli) nell’elenco dei villaggi riconosciuti di possesso dei Sanseverino con il Processo (accertamento eseguito dalle autorità regie) del 1276 figurava anche Rutino. Il documento originale del Processo è andato perduto, ma esso fu parzialmente trascritto da Domenico Ventriglia nell’opera “Notizie storiche del Castello dell’Abate e dei suoi casali nella Lucania” stampata a Napoli nel 1827.
Tra il 1485 ed il 1487 si snodano le vicende della Congiura dei Baroni, cospirazione dei nobili, fra i quali i Sanseverino, contro gli Aragonesi (dinastia d’origine spagnola che aveva sostituito gli Angioini sul trono di Napoli). Tale congiura fu definitivamente domata solo nel 1497, con la capitolazione di Antonello Sanseverino, uno dei maggiori responsabili dei fatti: questi furono poi consegnati alla storia da Camillo Porzio nella cronaca “La congiura dei Baroni del Regno di Napoli contro re Ferdinando I” (pubblicata nel 1565). In breve: la congiura fallì miseramente e Rutino, Rocca e Torchiara passarono a Sigismondo di Sangro, feudatario di Acquavella. Questi tre centri furono poi restituiti da Ferdinando il Cattolico (re di Spagna) nel 1507 ai Sanseverino; ma nello stesso anno questi ultimi, per finanziare la loro partecipazione alla spedizione dell’imperatore Carlo V contro Tunisi, covo del pirata barbarossa, vendettero Rutino ai De Rogerio di Salerno.
Nel 1553 i De Rogerio (che avevano aderito ad un’ennesima congiura) furono privati di Rutino che la regia Corte (supremo tribunale del Regno, con competenze soprattutto amministrative) vendette, con Rocca, a Michele Giovanni Gomez.
Rutino seguì poi le vicende di Rocca fino a quando i due centri pervennero nel 1661 ai Garofalo. Questi ultimi mantennero il possesso di Rutino, col titolo di Duchi, fino al 1806, quando si ebbe la cosiddetta eversione della feudalità. Con quest’ultima espressione si intende l’insieme dei provvedimenti adottati dai Francesi durante il periodo (1806 - 1815) di occupazione napoleonica, coi quali venne modificata la distribuzione della proprietà fondiaria soprattutto mediante l’abolizione dell’istituto del feudo.
Tra gli uomini illustri di Rutino meritano una particolare menzione:
Lucio, Salvatore e Michele Magnoni, Luigi Magnoni, Carmine e Francesco D’Agosto, Giuseppe, Vincenzo e Francesco Verdoliva, Nicola Cavalli e Giuseppe Spagnuolo che nella prima metà dell’800 parteciparono ai Moti Cilentani;
il letterato settecentesco Pasquale Magnoni, autore del “De veris Posidoniae et Paesti originibus dissertatio” pubblicato a Napoli nel 1763, veramente notevole per l’epoca in cui fu scritto;
Annibale Puca, il primo psichiatra in Italia ad occuparsi e scrivere di psicoanalisi nel periodo fra le due Guerre mondiali (momento non certo propizio, qui da noi, a tali studi);
Giovanni Lombardi, docente di diritto e procedura penale nella Università di Napoli;
il poeta Enzio Cetrangolo noto anche in campo internazionale con le sue numerose opere;
Ferdinando Palladino, con i suoi scritti sul mondo agricolo e legato a questa terra e agli agricoltori che chiamava amici.
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